Dallo studio di Bruna Bianchi sui disobbedienti
nella "grande guerra"
La ribellione alla vita di guerra
Com’è noto, gli episodi di ammutinamento e di rivolta
furono numerosi e furono per lo più originati dalla richiesta del cambio nel
turno di trincea. I soldati mantenevano un atteggiamento passivo, rifiutando di
mettersi in cammino o di salire sui treni e chiedevano di essere mandati a
riposo. Accompagnavano il rifiuto grida contro la guerra e i comandi. In molti
casi ai colpi di fucile esplosi in segno di minaccia e determinazione, seguivano
i tumulti, le barricate sui binari, le aggressioni agli ufficiali. Oltre al
mancato rispetto del turno, talvolta la scintilla della protesta si accendeva
in seguito alla mancata distribuzione del pane o delle cartoline. Le rivolte
collettive iniziarono a manifestarsi nell’inverno 1915 ad Aosta, Sacile, Oulx,
ma già dall’estate 1916, in seguito alle circolari che invitavano alla
giustizia sommaria, la certezza della repressione trattenne i soldati dalla
ribellione aperta[2]. Tuttavia, a partire dalla primavera 1917, ripresero a
manifestarsi casi di ammutinamento; gli echi degli avvenimenti in Russia si
erano diffusi tra le truppe e con essi la speranza nella possibilità di
rovesciare i rapporti gerarchici.
L’episodio più grave di rivolta fu quello avvenuto a
Redipuglia tra i soldati della brigata Catanzaro. Nei tumulti che scoppiarono
nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917 due ufficiali rimasero uccisi, altri
due furono feriti, altri ancora vennero allontanati dai soldati; la rivolta
terminò solo dopo molte ore di scontri quando le truppe furono circondate
«dagli squadroni di cavalleria, automitragliatrici e autocannoni»[3]. Il
mattino successivo furono passati per le armi 28 soldati, di cui 12 per
decimazione. Soldati fucilati sul posto, compagnie disciolte, graduati
retrocessi, ufficiali deferiti al tribunale militare, licenze sospese a interi
reggimenti, furono i provvedimenti repressivi che impedirono agli episodi di
ammutinamento di diffondersi, come invece accadde in Francia nel maggio 1917[4].
Se dall’inizio del conflitto all’aprile 1917 le
fucilazioni senza processo documentate erano state 48, da maggio a settembre
1917 ben 64 soldati furono fucilati per ordine diretto dei comandanti, la
maggior parte per rivolta (47)[5]. Lo confermano i dati riportati dal memoriale
del generale Tommasi[6], memoriale steso nell'ambito della Commissione di
inchiesta sui fatti di Caporetto[7] e mai reso ufficialmente noto. Le rivolte
individuali e collettive in prossimità delle prime linee cui seguirono
fucilazioni senza processo non devono essere considerate tanto circoscritte; i
dati riportati dagli allegati al memoriale sono significativi solo di un
andamento. Molte esecuzioni infatti non vennero denunciate sia per la
difficoltà di giustificarle sia perché avvenute in combattimento, e
probabilmente non conosceremo mai il numero dei soldati abbattuti dai loro
ufficiali sul campo perché sbandati o perché si erano rifiutati di avanzare. Di
tali episodi e del loro tragico esito restano poche, ma significative tracce
nella documentazione processuale degli ufficiali denunciati per denigrazione. È
il caso di un capitano che fu udito dichiarare:
I soldati italiani non avanzano contro il nemico
allorché ne vien dato loro l’ordine dai superiori e occorre spingerli in avanti
con il fucile e a ogni ostacolo si fermano e che egli dovette far fuoco sui
soldati della sua compagnia, ma questi gli rivolsero contro le armi[8].
Contemporaneamente aumentarono le condanne a morte
eseguite inflitte dai tribunali: da 103 nel primo anno di guerra si passò a 251
nel secondo, a 382 nel terzo[9].
La disciplina militare feroce, la «tremenda memoria
delle esecuzioni ingiuste»,[10] lasciarono un segno profondo nell’animo dei
combattenti, accentuarono il rancore nei confronti dei comandi, il disgusto per
i rapporti disciplinari. Questi sentimenti si esprimevano quotidianamente in
atti di insubordinazione e disobbedienza e in alcuni reggimenti erano divenuti
abituali. Lo ammise un «autorevole e valorosissimo ufficiale» alla Commissione
d’inchiesta sui fatti di Caporetto:
Qualche colpo di fucile in aria alla partenza per la
trincea era divenuto abituale. In certi reggimenti ogni segnale di tromba
veniva accolto da fischi. Spesso la fine di qualche conferenza di propaganda
veniva fischiata. Così continuarono le fischiate […] e di notte in mezzo ai
boschi talvolta si udiva gridare: «Vogliamo la pace! Viva la pace! Abbasso la
guerra!».[11]
Durante le marce verso le linee accadeva con una certa
frequenza che i soldati si rifiutassero di proseguire o che voci isolate che
incitavano alla disobbedienza si levassero dal gruppo: «Questi vigliacchi ci
vogliono far morire; io non cammino più. Si provi lei a farmi fare un passo in
avanti»[12]. Erano grida che rivendicavano il diritto al riposo o frasi di
aperta minaccia: «Capitano, sei un vigliacco; pensa a mandare i tuoi soldati in
licenza altrimenti se ci porti un’altra volta in trincea, ti faccio la
pelle»[13].
Anche le ribellioni individuali furono punite con grande
severità. Le condanne a morte inflitte dai tribunali militari per reati
connessi alla disciplina furono 182, di queste ben 154 (84,6%) furono eseguite.
Si tratta della percentuale più elevata rispetto a tutti gli altri reati.
Infatti furono eseguite solo l’11,2% delle condanne a morte inflitte per
diserzione (47,8% se non si considerano le condanne in contumacia), il 14,3% di
quelle inflitte per mutilazione volontaria e il 61% di quelle inflitte per
sbandamento[14]. Alla fucilazione non si fece ricorso soltanto in situazioni
estreme, ma anche per riaffermare i rapporti gerarchici: soldati indisciplinati
e ribelli furono considerati elementi dannosi, da eliminare non soltanto dalle
file dell’esercito, ma dalla convivenza sociale. Ne è un esempio il caso del
soldato Paolo Arnoldi, fucilato il 22 agosto 1917. Dal rapporto informativo che
accompagna la notifica della sua esecuzione si viene a sapere che era
considerato indifferente, cinico, ribelle, privo di ogni sentimento e che «fu
colta l’occasione per eliminarlo»[15]. Più volte ammonito, fu passato per le
armi per essersi rifiutato di partecipare a una esercitazione e aver minacciato
il suo superiore, un giovane aspirante: «se mi metti le mani addosso ti faccio
saltare la testa». Esemplare anche la condanna a morte inflitta a un vagabondo
di Palermo accusato di diserzione in presenza del nemico, insubordinazione,
insulti e vie di fatto verso un superiore. Il soldato fu definito «pericoloso
per la società e per l’esercito» e fucilato il 12 maggio 1917.[16]
Le mancanze disciplinari dei soldati che furono freddati
dai loro ufficiali non avevano un carattere di particolare gravità: un moto di
rabbia, un rifiuto ostinato, un atteggiamento di sfida. Era sufficiente che
l’ufficiale vedesse in un atto di disobbedienza un grave pericolo per la
disciplina perché si sentisse legittimato all’uso delle armi.
«Non vado più avanti perché non ne posso più, non vado
più avanti aspirante del cazzo»[17], aveva gridato nel giugno 1917 un soldato
durante una marcia verso le prime linee. Il soldato faceva parte di una
pattuglia incaricata di un trasporto di cavalli di Frisia. Il cammino era
faticoso e i cavalli si impigliavano continuamente nella vegetazione.
All’altezza della terza linea di resistenza gli uomini in testa alla colonna si
fermarono chiedendo qualche minuto di riposo. Al rifiuto dell’ufficiale esplose
la rabbia del soldato, subito soffocata da un colpo partito dalla pistola
dell’aspirante.
Alla rivolta i soldati erano indotti dalla profonda
stanchezza per la guerra, dal senso della giustizia offeso e dalla
disperazione. Soldati fuggiti dal fronte, una volta tratti in arresto e
crollate le speranze di sfuggire a un destino di morte, diedero libero sfogo
alla propria rabbia: «In trincea dovrebbero mandarci tutte le persone che
vogliono la continuazione della guerra»[18]; oppure: «Fate come faccio io,
datevi disertori»[19]. Anche nelle aule dei tribunali talvolta i soldati
accusati di reati gravi, rinunciarono a dichiararsi pentiti o a invocare
clemenza e vollero manifestare apertamente la propria volontà di ribellione:
Al pubblico dibattimento il P. con la massima
disinvoltura e in modo sdegnoso e altero, dichiarò esplicitamente di essersi
dato alla latitanza per sottrarsi ai disagi e ai pericoli della guerra e che
era sua ferma volontà di fare tutto il possibile per riuscire a emigrare […]. È
ora di finirla! Basta con questa guerra, è stato Salandra a volere la guerra e
non noi. Vorrei che ci venisse un colpo a tutti gli Ufficiali![20].
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