sabato 16 giugno 2018

Disobbedienti nella "grande guerra"



     Dallo studio di Bruna Bianchi sui disobbedienti nella "grande guerra"


La ribellione alla vita di guerra




    Com’è noto, gli episodi di ammutinamento e di rivolta furono numerosi e furono per lo più originati dalla richiesta del cambio nel turno di trincea. I soldati mantenevano un atteggiamento passivo, rifiutando di mettersi in cammino o di salire sui treni e chiedevano di essere mandati a riposo. Accompagnavano il rifiuto grida contro la guerra e i comandi. In molti casi ai colpi di fucile esplosi in segno di minaccia e determinazione, seguivano i tumulti, le barricate sui binari, le aggressioni agli ufficiali. Oltre al mancato rispetto del turno, talvolta la scintilla della protesta si accendeva in seguito alla mancata distribuzione del pane o delle cartoline. Le rivolte collettive iniziarono a manifestarsi nell’inverno 1915 ad Aosta, Sacile, Oulx, ma già dall’estate 1916, in seguito alle circolari che invitavano alla giustizia sommaria, la certezza della repressione trattenne i soldati dalla ribellione aperta[2]. Tuttavia, a partire dalla primavera 1917, ripresero a manifestarsi casi di ammutinamento; gli echi degli avvenimenti in Russia si erano diffusi tra le truppe e con essi la speranza nella possibilità di rovesciare i rapporti gerarchici.

    L’episodio più grave di rivolta fu quello avvenuto a Redipuglia tra i soldati della brigata Catanzaro. Nei tumulti che scoppiarono nella notte tra il 15 e il 16 luglio 1917 due ufficiali rimasero uccisi, altri due furono feriti, altri ancora vennero allontanati dai soldati; la rivolta terminò solo dopo molte ore di scontri quando le truppe furono circondate «dagli squadroni di cavalleria, automitragliatrici e autocannoni»[3]. Il mattino successivo furono passati per le armi 28 soldati, di cui 12 per decimazione. Soldati fucilati sul posto, compagnie disciolte, graduati retrocessi, ufficiali deferiti al tribunale militare, licenze sospese a interi reggimenti, furono i provvedimenti repressivi che impedirono agli episodi di ammutinamento di diffondersi, come invece accadde in Francia nel maggio 1917[4].

    Se dall’inizio del conflitto all’aprile 1917 le fucilazioni senza processo documentate erano state 48, da maggio a settembre 1917 ben 64 soldati furono fucilati per ordine diretto dei comandanti, la maggior parte per rivolta (47)[5]. Lo confermano i dati riportati dal memoriale del generale Tommasi[6], memoriale steso nell'ambito della Commissione di inchiesta sui fatti di Caporetto[7] e mai reso ufficialmente noto. Le rivolte individuali e collettive in prossimità delle prime linee cui seguirono fucilazioni senza processo non devono essere considerate tanto circoscritte; i dati riportati dagli allegati al memoriale sono significativi solo di un andamento. Molte esecuzioni infatti non vennero denunciate sia per la difficoltà di giustificarle sia perché avvenute in combattimento, e probabilmente non conosceremo mai il numero dei soldati abbattuti dai loro ufficiali sul campo perché sbandati o perché si erano rifiutati di avanzare. Di tali episodi e del loro tragico esito restano poche, ma significative tracce nella documentazione processuale degli ufficiali denunciati per denigrazione. È il caso di un capitano che fu udito dichiarare:

    


    I soldati italiani non avanzano contro il nemico allorché ne vien dato loro l’ordine dai superiori e occorre spingerli in avanti con il fucile e a ogni ostacolo si fermano e che egli dovette far fuoco sui soldati della sua compagnia, ma questi gli rivolsero contro le armi[8].

    Contemporaneamente aumentarono le condanne a morte eseguite inflitte dai tribunali: da 103 nel primo anno di guerra si passò a 251 nel secondo, a 382 nel terzo[9].


    La disciplina militare feroce, la «tremenda memoria delle esecuzioni ingiuste»,[10] lasciarono un segno profondo nell’animo dei combattenti, accentuarono il rancore nei confronti dei comandi, il disgusto per i rapporti disciplinari. Questi sentimenti si esprimevano quotidianamente in atti di insubordinazione e disobbedienza e in alcuni reggimenti erano divenuti abituali. Lo ammise un «autorevole e valorosissimo ufficiale» alla Commissione d’inchiesta sui fatti di Caporetto:

    Qualche colpo di fucile in aria alla partenza per la trincea era divenuto abituale. In certi reggimenti ogni segnale di tromba veniva accolto da fischi. Spesso la fine di qualche conferenza di propaganda veniva fischiata. Così continuarono le fischiate […] e di notte in mezzo ai boschi talvolta si udiva gridare: «Vogliamo la pace! Viva la pace! Abbasso la guerra!».[11]

    Durante le marce verso le linee accadeva con una certa frequenza che i soldati si rifiutassero di proseguire o che voci isolate che incitavano alla disobbedienza si levassero dal gruppo: «Questi vigliacchi ci vogliono far morire; io non cammino più. Si provi lei a farmi fare un passo in avanti»[12]. Erano grida che rivendicavano il diritto al riposo o frasi di aperta minaccia: «Capitano, sei un vigliacco; pensa a mandare i tuoi soldati in licenza altrimenti se ci porti un’altra volta in trincea, ti faccio la pelle»[13].

    Anche le ribellioni individuali furono punite con grande severità. Le condanne a morte inflitte dai tribunali militari per reati connessi alla disciplina furono 182, di queste ben 154 (84,6%) furono eseguite. Si tratta della percentuale più elevata rispetto a tutti gli altri reati. Infatti furono eseguite solo l’11,2% delle condanne a morte inflitte per diserzione (47,8% se non si considerano le condanne in contumacia), il 14,3% di quelle inflitte per mutilazione volontaria e il 61% di quelle inflitte per sbandamento[14]. Alla fucilazione non si fece ricorso soltanto in situazioni estreme, ma anche per riaffermare i rapporti gerarchici: soldati indisciplinati e ribelli furono considerati elementi dannosi, da eliminare non soltanto dalle file dell’esercito, ma dalla convivenza sociale. Ne è un esempio il caso del soldato Paolo Arnoldi, fucilato il 22 agosto 1917. Dal rapporto informativo che accompagna la notifica della sua esecuzione si viene a sapere che era considerato indifferente, cinico, ribelle, privo di ogni sentimento e che «fu colta l’occasione per eliminarlo»[15]. Più volte ammonito, fu passato per le armi per essersi rifiutato di partecipare a una esercitazione e aver minacciato il suo superiore, un giovane aspirante: «se mi metti le mani addosso ti faccio saltare la testa». Esemplare anche la condanna a morte inflitta a un vagabondo di Palermo accusato di diserzione in presenza del nemico, insubordinazione, insulti e vie di fatto verso un superiore. Il soldato fu definito «pericoloso per la società e per l’esercito» e fucilato il 12 maggio 1917.[16]

    Le mancanze disciplinari dei soldati che furono freddati dai loro ufficiali non avevano un carattere di particolare gravità: un moto di rabbia, un rifiuto ostinato, un atteggiamento di sfida. Era sufficiente che l’ufficiale vedesse in un atto di disobbedienza un grave pericolo per la disciplina perché si sentisse legittimato all’uso delle armi.

    «Non vado più avanti perché non ne posso più, non vado più avanti aspirante del cazzo»[17], aveva gridato nel giugno 1917 un soldato durante una marcia verso le prime linee. Il soldato faceva parte di una pattuglia incaricata di un trasporto di cavalli di Frisia. Il cammino era faticoso e i cavalli si impigliavano continuamente nella vegetazione. All’altezza della terza linea di resistenza gli uomini in testa alla colonna si fermarono chiedendo qualche minuto di riposo. Al rifiuto dell’ufficiale esplose la rabbia del soldato, subito soffocata da un colpo partito dalla pistola dell’aspirante.

    Alla rivolta i soldati erano indotti dalla profonda stanchezza per la guerra, dal senso della giustizia offeso e dalla disperazione. Soldati fuggiti dal fronte, una volta tratti in arresto e crollate le speranze di sfuggire a un destino di morte, diedero libero sfogo alla propria rabbia: «In trincea dovrebbero mandarci tutte le persone che vogliono la continuazione della guerra»[18]; oppure: «Fate come faccio io, datevi disertori»[19]. Anche nelle aule dei tribunali talvolta i soldati accusati di reati gravi, rinunciarono a dichiararsi pentiti o a invocare clemenza e vollero manifestare apertamente la propria volontà di ribellione:

    Al pubblico dibattimento il P. con la massima disinvoltura e in modo sdegnoso e altero, dichiarò esplicitamente di essersi dato alla latitanza per sottrarsi ai disagi e ai pericoli della guerra e che era sua ferma volontà di fare tutto il possibile per riuscire a emigrare […]. È ora di finirla! Basta con questa guerra, è stato Salandra a volere la guerra e non noi. Vorrei che ci venisse un colpo a tutti gli Ufficiali![20].

    


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