domenica 4 dicembre 2016

Nel «maggio radioso» 1915, fui chiamato alle armi.



Avendo trovato un posto in un Ministero, mi accinsi a menare una vita tranquilla. Difatti, pochi mesi appresso (1915) scoppiò la Prima Guerra mondiale. I nazionalisti, i lettori di D’Annunzio, gl’intossicati della letteratura antiaustriaca ci videro l’occasione per rinnovellare l’impero di Cesare Augusto, cogliere allori con rime e sopra tutto trovare un posto in carriere senza fatiche. Ed esplosero comizi guerrafondai in piazza, ai quali io andavo per protestare contro la guerra; tanto che una volta un personaggio da me stimato, ascoltando le mie grida mi ammonì: – Ma lei vuol farsi ammazzare!…


Già: io non capivo come si potesse generare alla vita un giovane, farlo consumare negli studi e nei sacrifici, al fine di maturarlo per una operazione, in cui lui avrebbe dovuto uccidere gente a lui estranea, sconosciuta, innocente, ed egli a sua volta avrebbe dovuto farsi uccidere da gente alla quale non aveva fatto alcun male. Vedevo l’assurdità, la stupidità, e sopra tutto il peccato della guerra: peccato reso più acuto dai pretesti con cui la guerra si cercava e dalla futilità con cui si decideva.

Il Vangelo, meditato già abbastanza, m’insegnava, come dovere inseparabile, di far del bene, non di uccidere; di perdonare, non di vendicarmi. E l’uso della ragione mi dava quasi la misura dell’assurdità d’una operazione, la quale assegnava i frutti della vittoria non a chi aveva ragione, ma a chi aveva cannoni; non alla giustizia, ma alla violenza senza parlare della figura ambigua dell’Italia, la quale finora era stata alleata della Germania e dell’Austria, e ora rompeva l’alleanza, per un «sacro egoismo» (Salandra), come se l’egoismo potesse essere sacro.

Nel «maggio radioso» 1915, fui chiamato alle armi. Un pomeriggio, nella Stazione Termini, a Roma, scorsi tra folle urlanti Gabriele D’Annunzio portato a braccia sulle teste calde; e il suo viso mi diede l’impressione d’una grande paura, e d’una equivalente noia. Non m’era piaciuto come autore e mi parte artefatto come attore.

Quante trombe, quanti discorsi, quante bandiere! Tutta roba che infittiva dentro il mio spirito la repugnanza per quegli scontri, con governi che, incaricati del bene pubblico, attuavano il loro compito ammazzando figli del popolo, a centinaia di migliaia, e distruggendo e lasciando distruggere i beni della nazione: il bene pubblico. Ma quanto tutto ciò mi apparve cretino! E soffrivo per milioni di creature, alle quali si soleva per forza far credere nella santità di quegli omicidi, santità attestata anche da ecclesiastici che benedicevano cannoni destinati a offendere Dio nel capolavoro della creazione, a uccidere Dio in effige, a realizzare il fratricidio in persona di fratelli, per di più battezzati.

Quale recluta fui mandato a Modena, dove c’era una specie di università per la formazione di guerrieri e duci. Venendo da Virgilio e Dante, lo studio di certi manuali, dove s’insegnava a ingannare il nemico per giungere ad ammazzarlo, mi fece tale effetto che, con una imprudenza non superabile, scrissi su uno di essi: – Qui s’impara la scienza dell’imbecillità –. Ben altro concetto avevo io dell’amor di patria. Lo concepivo infatti come amore; e amore vuol dire servizio, ricerca del bene, aumento del benessere, per la produzione di una convivenza più felice: per la crescita, e non per lo stroncamento, della vita.


Ma ero giovane, e non capivo i ragionamenti degli anziani, i quali non facevano questione di capire: si stordivano con cortei e strillavano slogan per narcotizzarsi.
Ero divenuto un cristiano tiepido, ma quella pazzia circumurlante mi stava riportando al Vangelo, di cui vedevo l’attualità, per la sapienza superumana ond’era saturo.
Capii la morte per crepacuore di Pio X (e poi di Pio XI, per la ripetizione di quell’orrore); e capii la definizione precisa di Benedetto XV: «una inutile strage». Non mi rassegnavo alla passività, alla superficialità di tanti, i quali non volevano dare la vita per motivi discussi, vaghi, inesistenti e d’altra parte non si muovevano, lasciavano fare, si lasciavano immolare sull’ara delle chimere tinte di sangue.

Dopo qualche settimana, diplomato a Modena, tornai a casa, per ripartire per il fronte. Abbracciai mia madre e mio padre, i fratelli e le sorelle (l’abbraccio si praticava pochissimo in casa mia) e presi il treno. Dal treno scorsi per la prima volta il mare, più largo assai dell’Aniene; e fu come se avessi assolto uno dei doveri della mia esistenza: e, in tre giorni, raggiunsi la trincea dell’Isonzo nel centoundicesimo Reggimento fanteria.

La trincea! In essa, dalla scuola entrai nella vita, tra le braccia della morte con le salve dei cannoni. Fango, freddo, sporcizia, attutirono la scoperta amara: che i soldati erano tutti contrari all’omicidio detto guerra, per il fatto che l’omicidio era uccisione dell’uomo: tutti la detestavano; tanto che mi convinsi d’una verità, che le esperienze future dovevano convalidare: essere nel secolo nostro la guerra un’operazione fatta contro il popolo, in spregio alla libertà di esso e alla così detta democrazia. Se uno statista dichiara la guerra, si può argomentare, a occhi chiusi, che è un nemico del popolo: difatti, allestisce al popolo miseria e stragi. Nei tempi moderni, la guerra è stata asserita e fatta sopra tutto da Hitler, da Stalin, da Mussolini: tre pazzi; segno che, se non si sta accorti, a dirigere lo Stato può salire un genocida.


Ma, ripeto, c’era pure chi esaltava la guerra. Lo constatammo noi ufficiali del 3° battaglione dopo no più di venti giorni, quando fu richiamato dal fronte e destinato a servizi di burocrazia a Roma l’unico giovane ufficiale che era stato focoso interventista. Lo sdegno per quella ipocrisia ancora lo risento: esso mi evoca la figura di un giovane collega di Pisa, che per mesi non riuscì a comprimere l’indignazione. Ma è così. Allora, e durante il fascismo, e poi, constatai sempre che, se uno esalta la guerra, lo fa perché ignora la guerra, o sopra tutto perché calcola di potersene disimpegnare o di sfruttarla. E lo stomaco più disgustoso lo provai allora e poi nel leggere articoli guerrafondai di ecclesiastici, su riviste religiose; noi, al fronte, misuravamo le dimensioni sterminate della ipocrisia di chi, non avendo provato l’inferno d’una trincea, l’orrore d’uno scontro alla baionetta o a fucilate, a cannonate, ripeteva a tavolino carmi imparati a scuola, con reminiscenze di atti valorosi compiuti quando si pugnava con la spada e non si era spazzati dall’artiglieria; quando la guerra poteva giustificarsi ancora come difesa, e non dopo che era divenuta massacro senza risparmio di donne e vecchi, sacerdoti e bambini, opere d’arte e chiese, laboratori e case.

Queste considerazioni mi davano all’interno un disgusto ancora più grande di quello che mi veniva dalla noia, dalla mancanza d’aria, dai fetori multipli all’esterno.
Una trentina d’anni dopo, dal caro on. Cappi, divenuto più tardi presidente della Corte costituzionale, mi fu raccontato un giorno alla Camera che egli, in guerra, non aveva mai voluto sparare per tema di uccidere un uomo: un fratello. Anche altre personalità mi confessarono la stessa cosa. La quale era successa anche a me. Se cinque o sei colpi sparai, in aria, lo feci per necessità: mai volli indirizzare la canna del fucile verso le trincee avversarie, per tema di uccidere un figlio di Dio. Del resto, da quel che sperimentai, la guerra consisteva non nell’uccidere, ma nell’essere uccisi meccanica­mente. 


 

Da Memorie di un cristiano ingenuo, di Igino Giordani , Città Nuova editrice