lunedì 5 novembre 2018

Una lettera su un centenario mancato

La “grande guerra” considerata nella sua attualità nella nostra società che non ha fatto ancora i conti con quella “grande follia”.
Il 4 novembre ricorre il centesimo anno dalla fine della prima guerra mondiale e si sente nel sottofondo il rumore della retorica che esalta quella strage, inutile come tutti gli altri spargimenti di sangue, chiamandola “grande guerra”, non per le sue dimensioni ma per aver tirato fuori dai soldati i grandi valori del popolo italiano.
Una “grande follia”, non solo per i 16 milioni di morti e 20 milioni di feriti, oltre la miseria e le malattie, come la spagnola, che fecero strage di civili indeboliti da anni di guerra.
Fu una follia per come scoppiò. Il 30 luglio 1914 lo Stato maggiore generale tedesco fece pressione sul Governo, fino a far pubblicare su un giornale di Berlino del pomeriggio una “fake news” in cui annunciava una mobilitazione generale dell’esercito per mettere il Governo di fronte al fatto compiuto. Un comportamento che oscilla tra il colpo di stato e l’alto tradimento. All’epoca, gli eserciti di leva necessitavano del decreto di mobilitazione, che in Germania significava mobilitare 11 mila treni per portare le truppe al fronte: una operazione talmente onerosa da essere irreversibile: mobilitazione significava guerra. Il giornale fu sequestrato ma von Moltke, il capo di Stato maggiore tedesco, non si arrese ed esortò il collega austriaco Conrad von Hötzendorf a mobilitare il suo esercito. I Governi e la maggioranza dell’opinione pubblica di tutta Europa erano contrari alla guerra, i generali no.
Nel 2014 lo storico Alessandro Barbero ha raccontato i giorni prima della di dichiarazione della guerra in modo molto dettagliato.
La sera del 30 luglio sembra una commedia. Il governo tedesco si riunisce a casa del cancelliere von Bethmann-Hollweg per discutere della dichiarazione di guerra alla Russia in risposta alla mobilitazione dell’esercito dello Zar. Il ministro della Marina si oppone alla dichiarazione di guerra ma gli rispondono che i tecnici del ministero degli Esteri hanno detto che “questa è la prassi”: dopo l’ultimatum inascoltato alla Russia di sospendere la mobilitazione, il passo successivo era obbligatoriamente la dichiarazione di guerra e la mobilitazione.
Il piano d’attacco tedesco era composto da due fasi: la prima fase prevedeva l’attacco alla Francia passando per il Belgio, neutrale a ogni guerra e strategico per l’Inghilterra; la seconda fase prevedeva il trasferimento delle truppe sul fronte Russo, più lento nel rendere operativo l’esercito. Con questi dettagli di strategia militare si capisce la commedia che si è consumata. Il primo agosto l’Inghilterra, per motivi economici, per la paura di vedere occupato il Belgio e per il suo disinteresse agli affari continentali, invia un messaggio al Kaiser e al Cancelliere von Bethmann-Hollweg per un accordo di non belligeranza: se la Germania non attacca la Francia, la Repubblica transalpina e l’Inghilterra sarebbero rimaste fuori dalla guerra.
Ma ormai l’ordine di mobilitazione, scattato in automatico in seguito all’ultimatum alla Russia, era stato dato e l’immensa macchina da guerra tedesca era già all’opera.
Quando il Kaiser e il Cancelliere chiamarono il generale von Moltke per cambiare gli ordini di mobilitazione, che forse avrebbe scongiurato l’inizio della guerra, quest’ultimo, appena venne informato, scoppia a piangere e dichiara che l’ordine di mobilitazione non si può cambiare. Dopotutto, sembrerebbe che von Moltke fosse lì più perché nipote dell’omonimo zio,“il vincitore di tutte le guerre”, che per meriti personali.
Il primo passo fu l’invasione del Lussemburgo, da parte dell’esercito tedesco, per poi lanciare l’ultimatum al Belgio. Una dichiarazione di guerra piena di bugie e menzogne, ma le forme andavano rispettate: ultimatum e poi invasione.
Barbero fa il parallelismo con Colin Powell che mostra all’opinione pubblica la prova (finta) delle armi batteriologiche di Saddam Hussein.
Alla base delle guerre c’è sempre uno strato di menzogne.
Questo parallelismo non è un caso: concetti come “la guerra giusta” e “la bella morte”, ancora tutt’oggi presenti nella nostra cultura, si radicano nella retorica della prima guerra mondiale.
Rivedere il mito della guerra fondato sulla retorica della prima guerra mondiale poteva essere uno spunto per questo centenario. Rivedere i nomi delle vie delle piazze nostre città, a volte intitolate a persone esaltate per aver ammazzato molti “nemici”, sarebbe stato un gesto forte di rottura con quella cultura, come ha proposto Giorgio Giannini del Centro Studi Difesa Civile. Altro spunto sarebbe potuto essere studiare il peso dell’apparato militar-industriale sulle scelte degli stati maggiori degli stati belligeranti: i generali hanno agito in totale autonomia?
Infine rimane la ferita scoperta di un numero imprecisato, perché manca una seria ricerca storica, di soldati fucilati dai propri comandanti per motivi futili o perché si sono opposti a ordini contrari alla ragione, come l’assalto all’arma bianca contro le mitragliatrici austriache in pieno giorno; oppure soldati fucilati per la follia di ufficiali come il generale Graziani, uno di questi reo di tenere il sigaro in bocca.
Queste persone sono considerate ancora oggi criminali ed una legge che doveva servire a riabilitarli è stata respinta dal Senato lo scorso anno. Segno che la cultura e la retorica della guerra della prima guerra mondiale ancora impregna la nostra del nuovo millennio e che abbiamo mancato questo centenario per fare i conti con la nostra Storia.

martedì 24 luglio 2018

Camminare domandando

L’appuntamento nasce dalla necessità di trovare uno spazio comune di approfondimento per esaminare alcuni nodi tematici sorti nel percorso del gruppo di lavoro “economia disarmata” che sostiene l’impegno per la pace del Movimento dei Focolari in Italia. Non si tratta perciò di un’esigenza teorica e astratta ma da una domanda di senso che proviene dall’impegno diretto nella realtà, secondo il criterio della “cultura che nasce dalla vita” adottato come metodo e strumento di conoscenza


Il legame con la “grande guerra del 14-18” del secolo scorso si pone a partire dalla frattura tra l’invito inascoltato ai “capi delle nazioni” lanciato da Benedetto XV  per fermare l’inutile strage, l’orrenda carneficina della guerra industriale di massa da 10 milioni di morti, e l’obbedienza comunque dovuta all’autorità legittima da parte dei singoli cittadini. Obbedienza ribadita, tragicamente, pur di fronte a regimi disumani come quello nazifascista. La rottura di tale contraddizione, come è noto, è emersa compiutamente in Italia, a livello ecclesiale, con la testimonianza di Primo Mazzolari e Lorenzo Milani. Due sacerdoti lontani da ogni posizione di potere. Eppure posizioni coerenti in tal senso si sono già avute con Guido Miglioli, sindacalista delle leghe bianche attive nel cremonese.

In questa prospettiva storica, contemporanea con le vicissitudini dei movimenti anarchici e socialisti messi in crisi nel loro internazionalismo, ha particolare valore per noi la vicenda emblematica del giovane Igino Giordani che pur ripudiando la guerra si sentì comunque obbligato a indossare la divisa anche se, come precisa nella sua autobiografia scritta in tarda età, non sparò mai un colpo contro il nemico. 
Giordani, che diventerà cofondatore del Movimento dei Focolari, presentò nel 1949 la prima proposta di legge sull’obiezione di coscienza e questo orientamento, pubblicamente condiviso con Mazzolari che scrisse in maniera forzatamente anonima il fondamentale testo di ripudio della guerra “Tu non uccidere”, gli rese difficile la vita nel suo partito pur rappresentando, nella sua persona, la coerente continuità storica con il popolarismo antifascista.  

Si veda la descrizione di Giordani sul dizionariobiografico Treccani
Si tratta perciò di  andare alle radici delle questioni decisive per andare avanti nel nostro  camminare e agire oggi, nel 2018, di fronte a scelte politiche che ignorano il dettato costituzionale di “ripudio della guerra”, come nel caso eclatante delle bombe per aereo prodotte in Sardegna per l’aviazione della colazione saudita che bombarda la popolazione yemenita.
Sul questo blog tematico si trova diverso materiale utile che riprende anche pubblicazioni tematiche di Città Nuova. 
Questioni affrontate in una lunga intervista del 2016 con  Renato Sacco, coordinatore di Pax ChristiItalia, con domande legate all’attualità e al nodo della scelta della nonviolenza di fronte alla contraddizione di un modo in armi dove prevale l’ingiustizia.
Domande e risposte servono come base di un dialogo ragionato ed esigente

domenica 15 luglio 2018

L'Odissea libica e l'Italia

 

 

 

A proposito della Libia arrivano, nel luglio 2018, notizie di persone migranti che rischiano la vita sui gommoni perchè fuggono per chiedere asilo e rischiano di essere riportate nei campi di dentezione dove sono esposti a gravi violenze e umiliazioni. 

Ma sono in pochi a tener presente l'origine del caos con l'intervento armato voluto fortemente dalla Francia nel marzo 2011, Ecco la foto del vertice internazionale che diede via libera il 19 marzo all'operazione bellica 

 

 U.S. Secretary of State Hillary Rodham Clinton poses for a family photo with world leaders at the crisis summit on Libya at the Elysee Palace in Paris, France, on March, 19, 2011. [State Department photo/ Public Domain]

 

Dal dossier Disarmo di Città Nuova riprendiamo degli stralci dell'intervista fatta a Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa, per avere un suo parere di ricostruzione dei fatti e delle responsabilità di un avvenimento accaduto effettivamente pochi anni addietro. Un punto di vista che si può condividere o meno,soprattutto nelle conclusioni, ma che dimostra il livello di consapevolezza che esiste a livello di analisti della guerra. 

Come si spiega allora il sostegno del nostro Paese alla guerra contro la Libia di Gheddafi nel 2011? Oggi quasi tutti, a partire dai vertici militari, ne parlano come di un errore… 

Non è stato un errore. Siamo stati obbligati in forza di un ricatto. Il venerdì santo di quell’anno è venuto a Roma il presidente della commissione steri del senato Usa, John Kerry, per parlare con Berlusconi che aveva assicurato il mancato intervento diretto in Libia da parte dell’Italia che pure assicurava le basi alla Nato per colpirla. Il giorno di Pasqua Obama stesso telefona al presidente del consiglio italiano che, il giorno dopo, annuncia la partecipazione della nostra aviazione ai bombardamenti in corso sul Paese Nordafricano. Berlusconi ha dovuto cedere a pressioni fortissime contravvenendo ad un trattato internazionale bilaterale firmato con Gheddafi che prevedeva, tra l’altro, la non aggressione tra i due Paesi e il divieto di fornire basi a terzi per condurre attacchi.
Quella guerra serviva a destabilizzare una regione ma sarebbe stata impossibile da condurre per gli Stati Uniti senza l’utilizzo delle basi italiane, se non al prezzo di un impegno di forze e di uomini che il congresso americano non avrebbe mai autorizzato Obama a dispiegare. Anche perché Gheddafi aveva cominciato a collaborare e non era più visto come il feroce nemico dei tempi di Reagan. All’epoca l’Unione africana fece notare che la caduta di Gheddafi avrebbe portato il caos nel Shael con l’effetto di avere una Somalia (stato fallito, ndr) affacciata sul Mediterraneo. Un tipo di analisi che anche gli analisti hanno fatto con piena consapevolezza, come è facile immaginare. Allo stesso tempo il ritiro deciso da Obama in maniera affrettata dall’Iraq nel 2011 ha comportato l’entrata in quel Paese delle forze Isis che hanno preso facilmente il controllo nella parte nord. 

Ma nel caso libico non è stato predominante l’interesse francese? 

La loro belligeranza è stata funzionale agli interessi degli americani ed è stata evidente l’intenzione di Sarkozy di voler sottrarre gli affari agli italiani, ma anche per loro si è trattato di un autogol perché il caos conseguente non ha portato affari neppure a Parigi. 

Come se ne esce ora ? 

 Molti rimpiangono Gheddafi. Manca un uomo forte capace di controllare il territorio. Haftar sta crescendo sempre di più, gestisce quasi la metà del territorio nazionale e si sta espandendo ma l’Italia fa bene ad appoggiare il premier al-Sarraj perché controlla o esercita un’influenza sulla Tripolitania, cioè sulle zone strategiche da dove partono i migranti e dove è situato il terminal del gasdotto che porta il gas libico in Italia. Dobbiamo sostenere il primo ministro libico Fayez al-Sarraj per farlo trattare alla pari con Haftar che riceve il sostegno della Russia. Putin ha interesse a fermare il terrorismo islamista che minaccia di espandersi non solo nel Caucaso, dove già esiste, ma di contaminare quel 15% di popolazione musulmana in Russia che, estremizzata, potrebbe far insorgere una guerra civile devastante.
 
Quindi non basterebbe un accordo tra le maggiori potenze per fermare l’incendio in corso in Libia ? 

Certo. La Russia ha interessi comuni con l’Europa, ma questi sono molto diversi da quelli degli Usa che, con Trump, apertamente hanno dichiarato una ostilità aperta, già in sordina sotto Obama, verso la Germania inteso come Paese leader dell’Europa.